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Qualsiasi prodotto commerciale autorizzato porta con se un’etichetta. L’etichetta serve al consumatore per prendere conoscenza di alcuni dati che vanno dal produttore ai materiali utilizzati piuttosto che agli ingredienti in caso di prodotti alimentari. Per moltissime persone il dato più importante, quello che più incide sull’utente, è certamente quello del produttore. Qualora ci trovassimo nella condizione di non sapere questo dato ci sentiremmo spaesati. “Carino questo jeans, dove lo hai comprato?” “Bello questo computer, che marca è?” o ancora “Buona questa mozzarella, dove l’hai presa?”. Queste domande richiamano l’esigenza del consumatore di avere un punto di riferimento in campi di cui ovviamente sa poco o niente. Il marchio di qualità, il marchio di cui la gente si fida. Leggere o avere notizia di un’etichetta consente alle persone di dare un primo giudizio sulla cosa in questione. Potremmo definirlo un pre-giudizio per l’appunto. In questi casi quindi il marchio da all’utente una possibilità di formulare un giudizio basato su canoni più vicini e comprensibili come può essere appunto quello del produttore di qualità. Tutt’altro discorso è invece l’etichetta che si sente il bisogno di affibbiare a qualcuno quando si discute di società, di politica, del vivere comune nel suo complesso. Si presuppone che chi si avventuri in discorsi attinenti queste tematiche abbia le conoscenze adeguate per affrontare un dibattito oppure, quando queste conoscenze non ci sono, si affronta “l’avventura” del tema politico per informarsi, per chiarire, per “curiosare”. La domanda che mi pongo è: in entrambi questi casi… ha importanza l’orientamento politico dell’interlocutore? Se si discute di energia nucleare, di scuola, di giustizia… si ascolta, si confronta l’opinione altrui con la propria ed eventualmente si critica, si approva, si integra, si sostituisce. Dovrebbe essere un dibattito tra due persone che parlano di un argomento e confrontano le proprie conoscenze e le proprie opinioni. Perché una delle prime domande che si rivolgono è sempre “Scusa, ma tu per chi voti?”. Spesso ho assistito da spettatore a dibattiti simili e puntualmente appariva questa domanda. Il nesso tra l’etichetta dei prodotti commerciali e quella delle persone sta appunto nella conoscenza e nell’argomentazione. Nel primo caso si presuppone la necessaria ignoranza delle persone su temi estremamente specifici, ignoranza che nessuno nasconde proprio perché necessariamente inevitabile e incolpevole. Nel secondo caso si vuole nascondere la “colpevole” ignoranza ed utilizzare l’etichetta a scopi puramente difensivi. Dietro l’etichetta “umana” si nasconde la poca lucidità e la poco conoscenza di quello di cui si sta parlando. Ecco che in questi casi il marchio di appartenenza da dare a una persona diventa un mero strumento di anti-conversazione. Da quel momento in poi chi ha risposto ingenuamente a quella domanda è condannato a rispondere non più sull’argomento in sé ma sulle accuse di faziosità del suo interlocutore che ormai, avendo ben chiaro il comportamento di quella persona al seggio elettorale, potrà facilmente predisporre la propria mente a respingere tutto ciò che verrà detto perché il discorso si è inesorabilmente incanalato sui binari dello scontro a prescindere, dello scontro da talk show televisivo. E nulla potranno dire i nostri due eroi che non sia visto e interpretato con sospetto e diffidenza. “Certamente tenterà di tirare acqua al suo mulino”. Questo sostanzialmente è il pensiero di fondo della conversazione. Parlare e confrontarsi sui contenuti è certamente più difficoltoso, soprattutto quando, e accade spesso, si ha soltanto una vaga idea di quello di cui si sta parlando. Molto più facile assegnare un’etichetta e procedere spediti su questa “scorciatoia”. Dimmi chi voti e ti dirò chi sei.